Italia – Urss 1968

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Italia URSS 1960

È la storia di un’epoca magica per la nostra nazionale, una generazione vincente di calciatori di immenso talento che è entrata nel mito dalla porta principale ma, incredibilmente, deve i suoi fasti anche alla rotazione di una monetina che ha deciso di girare per il verso giusto.


Siamo nel 1968. Il mondo vive un’annata unica, destinata per sempre a creare un solco nella coscienza collettiva e nell’evoluzione della società contemporanea. Le piazze sono in fermento, si respira aria di rivoluzione, di illusioni, di sogni. In quel particolare frangente di storia così dinamico e fervido, una generazione di grandi calciatori sta crescendo nel nostro campionato, destinata a regalare emozioni difficilmente ripetibili.


La nazionale italiana non vince nulla da 30 anni esatti (un’eternità per i 2 volte campioni del mondo) ed è reduce dalla gigantesca delusione di Inghilterra ’66, quella della fatale Corea del Nord. Gli azzurri sono stati affidati a tale Ferruccio Valcareggi, che ha cominciato la sua avventura come collaboratore di Helenio Herrera, ma dopo pochi mesi rimane unico commissario tecnico: la collaborazione con il “Mago” non è durata a lungo. Il 25 giugno 1967, con una vittoria a Bucarest contro la Romania, comincia la sua avventura in solitaria, una gestione sotto la quale calcheranno il campo nomi del calibro di Zoff, Albertosi, Riva, Rivera, Mazzola, Facchett, Prati, Domenghini, e tanti altri.

La prima sconfitta, poi la gioia

Il primo vero battesimo di fuoco per il neonato gruppo nazionale è a Sofia. Data: 6 aprile 1968, l’occasione è quella dei quarti di finale, l’avversario è la Bulgaria. Nonostante una partenza sprint dei padroni di casa, ed il forfait di Picchi per incidente di gioco, gli azzurri riescono ad uscirne malconci, ma non troppo. Un gol di Prati accorcia le distanze con una rete che risulterà decisiva, ma al novantesimo il risultato è una sconfitta di misura per 3-2. Alla delusione segue la gioia. Il 20 aprile successivo, a Napoli, l’undici di Valcareggi liquida i temibili avversari con un 2-0 che non lascia repliche: l’Italia accede alle fasi finali dell’Europeo, la final four con sede proprio nel nostro Paese, tra Firenze, Napoli e Roma.

La semifinale da “testa o croce”
Italia, Inghilterra, Jugoslavia e Russia. A noi toccano i sovietici, avversario tosto e difficile da superare. Nelle precedenti 2 edizioni degli Europei hanno vinto (1960) e poi perso la finalissima (1964). In effetti, nonostante la spinta fantastica del pubblico di Napoli, cui la Federcalcio si affida quale magico amuleto nei momenti di difficoltà, ed un San Paolo stracolmo assiste inerme ai tentativi vani di Prati, Rivera e Mazzola di superare la muraglia ospite. Nemmeno un palo di Domenghini scalifisce le sicurezze dei rivali, che contano dei veri e propri colossi in difesa: Afonin, Shesternev, Istomin. La tensione si tocca con un coltello, l’equilibrio regna sovrano e così i primi 90 minuti scivolano via sul risultato di 0-0. Anche i successivi 30 minuti hanno lo stesso epilogo: reti bianche.

Il momento della verità
Cosa succede a questo punto? Il regolamento dell’epoca non prevede i calci di rigore, non prevede nemmeno silver o golden goal. L’unica opzione contemplata è quella del sorteggio immediato, il lancio fortuito di una monetina che decide chi delle due rivali può andare a giocarsi la finale di Roma con la Jugoslavia. Sembra davvero un epilogo riduttivo, quasi ironico rispetto alla portata drammatica di una sfida così lunga ed estenuante, ma tant’è. Si procederà negli spogliatoi dello stadio, con una estrazione del tutto casuale. L’arbitro, il tedesco Tschenscher, provvede subito a creare il clima della perfetta suspence: chiede ai capitani Facchetti e Shesternev di dirigersi nel ventre dello stadio, lontano dalle migliaia di occhi curiosi che restano in sospeso, all’esterno, a fissare il vuoto. Il San Paolo è un surreale susseguirisi di voci, mormorii, passaparola. Passano cinque, dieci, quindici minuti dal momento in cui i due difensori sono entrati nel sottopassaggio.


La monetina è un franco francese. Le cronache dicono che al primo lancio, il piccolo disco di metallo si incastri in una mattonella. Pausa scenica, poi tocca al secondo tentativo, che siamo certi i due capitani abbiano percepito eterno: stavolta la moneta cade su un lato.
Dopo pochi secondi il silenzio dello stadio è interrotto da urla fragorose: sono quelle di capitan Giacinto Facchetti! L’Italia può esultare, perché la monetina ha scelto, e la nazionale è in finale dopo 30 anni.


La sorte ha voluto così. L’elemento casuale ha avuto grande importanza in questa vicenda ma va detto che l’undici di Valcareggi quella finale la merita tutta. A confermarlo sono le due successive sfide con la temibile Jugoslavia. Gli azzurri impattano sugli avversari nel primo round, che termina, dopo i tempi supplementari, 1-1. Stavolta però nessun sorteggio: la finale non può essere decisa così, dunque si rigioca. La stanchezza tira un brutto scherzo alla talentuosa compagine balcanica, che si arrende sotto i colpi di Riva e Anastasi. È il 10 giugno del 1968, e In quel particolare frangente di storia così dinamico e fervido, l’Italia torna a festeggiare. L’Italia è campione d’Europa per la prima (e finora ultima) volta, davanti al suo popolo, anche grazie ad una scintillante monetina che in quella torrida estate decise di stendersi al suolo dal lato giusto.

Audentes Fortuna Iuvat” (la fortuna aiuta gli audaci), nella vita come nel calcio.
In attesa di vivere da protagonisti il prossimo Europeo, l’auspicio dei tifosi azzurri è quello di tornare a celebrare un successo che manca da oltre cinquant’anni, proprio come quella formidabile generazione di calciatori capace di regalarci soddisfazioni indimenticabili.